Essere influencer senza avidità

Secondo alcuni recenti sondaggi, un terzo degli adolescenti sogna di fare l’influencer, cioè di fare soldi sui social pubblicizzando prodotti o servizi e invogliando le persone all’acquisto. Influencer è diventato, quindi, un vero e proprio lavoro e, per coloro che raggiungono il successo, i guadagni sono assicurati, ma per uno che ce la fa, altri mille non riescono a sfondare.
Quanto l’influencer sia davvero “influente” è una questione ancora aperta, e troppo spesso si dimentica che popolarità e influenza sono due realtà talvolta molto distanti tra loro. Certo, i più popolari e ricchi possono contare su una vera e propria organizzazione che li supporta, con tanto di consiglieri, avvocati, manager, commercialisti e procuratori. Diventa facile per loro mettere in campo delle strategie comunicative che riescono a catturare l’attenzione mediatica e quella popolare.
È il caso di Federico Lucia, in arte Fedez, ultimamente impegnato nel supportare il Ddl Zan, in cui è difficile distinguere le idee personali da quelle che deve esprimere per il lavoro che svolge – quello di influencer, appunto – e per il quale viene pagato milioni di euro. Qualcuno, infatti, ha evidenziato lo strano passaggio da certe frasi apparentemente omofobe di alcune sue canzoni alla repentina difesa di quella legge così controversa.
In contrapposizione all’idea di influencer caratterizzata da interessi economici, diatribe politiche, strategie comunicative e pubblicitarie, anche la Chiesa propone il suo modello di influencer nel quale tutti questi elementi non sono presenti.
Papa Francesco, rivolgendosi ai giovani, durante la Gmg di Panama, ha indicato Maria di Nazaret quale donna di vero successo: «Senza dubbio la giovane di Nazaret non compariva nelle reti sociali dell’epoca, non era una influencer, però senza volerlo né cercarlo è diventata la donna che ha avuto la maggiore influenza nella storia».
Maria rappresenta anche un metro con il quale misurare i tanti influencer cattolici che quotidianamente possiamo incontrare sulla Rete.
L’influencer cattolico è una persona che ha udito una chiamata e ha risposto “sì” anche mettendosi in cammino nell’ambiente digitale.
Poi, pur operando in una dimensione pubblica, non dimentica di “custodire, meditando nel suo cuore” tutto ciò che Dio opera nella sua vita. Anzi, proprio da questa costante meditazione scaturisce la sua offerta di contenuti mediali.
Infine, è una persona che invita gli altri a fare quello che Gesù dice. Ai suoi follower, l’influencer cattolico rivolge costantemente l’invito ad andare oltre la sua persona – per quanto attraente possa apparire – e ad alzare lo sguardo verso Cristo.
Rispettando queste caratteristiche, ogni battezzato può diventare, se non proprio un influencer, almeno un generatore di contenuti multimediali – un prosumer – per la sua ristretta cerchia di amici social. Il suo obiettivo non sarà quello di incrementare il fatturato della sua azienda personale, ma quello di collaborare, nel suo piccolo, alla grande strategia comunicativa di Dio, il quale vuole beneficare l’intera umanità.

Pubblicato in EDITORIALI su l'Aurora Serafica | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su Essere influencer senza avidità

Il sinodo come faro per la Chiesa italiana

A distanza di cinque anni dal Convegno di Firenze, numerosi punti di quell’intervento del Pontefice pongono ancora diversi interrogativi…
Il sinodo come faro per la Chiesa italiana, di Ruggiero Doronzo
Papa Francesco ha recentemente invitato la Chiesa italiana a ripartire dal Convegno di Firenze del 2015 per avviare un percorso sinodale e finora la risposta è stata – come ha notato Domenico Delle Foglie su formiche.net – uno “strano silenzio”. Sembra trattarsi di quel silenzio che cala in un gruppo di persone quando qualcuno dice qualcosa di inatteso, di inopportuno o di imbarazzante. Forse questi aggettivi rimandano non tanto all’idea di Sinodo quanto al ricordo del Convegno di Firenze; infatti, nominare l’assemblea del novembre 2015 è come evocare uno spettro.

Quel Convegno era stato preparato con grande entusiasmo e doveva indicare le linee operative della Chiesa italiana per gli anni seguenti. Invece, ha prodotto un silenzio che si protrae ancora oggi perché “compresso” da due eventi precisi. Il primo è stato il Sinodo della Famiglia. Un gran numero di dibattiti, congetture, accuse e, per concludere, dubia hanno caratterizzato l’arco temporale che comprende la preparazione del Sinodo, il suo svolgimento e la pubblicazione dell’esortazione postsinodale Amoris laetitia, impegnando l’attenzione dell’opinione pubblica interna ed esterna alla Chiesa.

Non c’era quindi da sperare che il tema del “nuovo umanesimo” proposto dal Convegno di Firenze potesse competere alla pari con quello più “caldo” della famiglia per imporsi nell’agenda mediatica e all’attenzione delle persone.

Quello che nelle intenzioni degli organizzatori doveva essere un faro per la Chiesa italiana si è ritrovato a essere appena un lumicino che poi papa Francesco ha smorzato completamente con il discorso rivolto ai partecipanti al Convegno. L’unico passaggio nel quale il Papa è sembrato elogiare il lavoro svolto nell’assise fiorentina è stato quando l’ha definito un “esempio di sinodalità”. Per il resto, Francesco ha presentato la propria idea di umanesimo cristiano in modo poco convergente con le piste sulle quali il Convegno si stava muovendo, sottolineando che la sua presenza a Firenze non era volta a disegnare in “astratto” un nuovo umanesimo.

A distanza di cinque anni, numerosi punti di quell’intervento pongono ancora diversi interrogativi: Francesco ha voluto prendere le distanze da un Convegno che riteneva un esercizio teorico? A chi si riferiva il Papa quando ha detto: «non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa»? Dove ha scorto concretamente le tentazioni del pelagianesimo e dello gnosticismo da cui ha voluto mettere tutti in guardia? Cosa intendeva quando ha stigmatizzato il pericolo del «surrogato di potere, d’immagine, di denaro» da cui Dio deve proteggere la Chiesa italiana? A chi si riferiva quando ha raccomandato di praticare il dialogo e non la “negoziazione” che aspira a «ricavare la propria “fetta” della torta comune»?

Verso la fine del discorso il Papa ha dichiarato di sognare una Chiesa italiana «inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». Poi ha concluso: «Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio». Insomma, sembra che Francesco volesse dire: finora avete prodotto delle teorie, ora cercate di concretizzarle mettendo in pratica la mia Enciclica.

Ovviamente, il Pontefice aveva tutto il diritto, nonché il dovere di pronunciarsi in tal modo in quella sede. Forse coloro che si erano impegnati per realizzare un Convegno di tale portata si aspettavano qualche parola di apprezzamento in più per il lavoro svolto, ma Francesco, probabilmente, aveva avvertito l’urgenza di dare una scossa positiva alla nostra realtà ecclesiale.

Di certo, oggi non c’è troppo da stupirsi se, quando egli invita la Chiesa italiana a ripartire da Firenze, a qualcuno si forma un groppo alla gola. La paura di sbagliare è forte e, quando c’è la paura, c’è afasia e paralisi. Certamente, l’intenzione del Papa è quella di stimolare la Chiesa italiana e non di spaventarla, tuttavia, tra l’uno e l’altra potrebbe esserci un problema comunicativo o – come direbbero gli studiosi della Scuola di Palo Alto – di “punteggiatura”. Occorre, dunque, ripartire da Firenze; nel senso che tra Francesco e la Cei urge un chiarimento su ciò che è avvenuto a Firenze.

Pubblicato in EDITORIALI su l'Aurora Serafica | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su Il sinodo come faro per la Chiesa italiana

Dio non c’entra. O forse sì?

Il coronavirus ha letteralmente squassato la vita di tutti noi. Inaspettato, insidioso, potente ci ha costretto a rimanere a casa per due mesi. Per un certo tempo continuerà a circolare tra la popolazione mondiale, condizionando le abitudini e gli stili di vita e, anche dopo la scoperta del vaccino, i nostri atteggiamenti fisici e mentali probabilmente rimarranno per lungo tempo condizionati.
Vorrei proporvi una riflessione che vada al di là dei numeri del contagio, delle istruzioni per il distanziamento sociale, delle norme da seguire per evitare la diffusione della malattia, temi sui quali abbiamo forse raggiunto il limite della saturazione cerebrale.
Ho sentito poche persone lamentarsi con Dio per la situazione che si è venuta a creare. Era consuetudine, dopo un terremoto o un’altra calamità, sentire persone attribuire a Dio la colpa di quanto successo o, almeno, interrogarsi sul suo ruolo nella vicenda.
In realtà c’è stato qualche sparuto intervento per sostenere che questo virus sia la punizione divina per qualche peccato, ma evidentemente il ragionamento non regge se si considera che quasi sempre a pagare le conseguenze di queste presunte punizioni divine sono persone deboli e semplici, proprio quelle che Dio ama.
In generale, però, mi è sembrato che Dio sia stato poco coinvolto nella vicenda. Potrebbe essere il segno di una maggiore consapevolezza da parte degli esseri umani del fatto che molte volte sono loro stessi la causa dei mali che affliggono il mondo e, nel caso specifico, pochi hanno creduto che questo virus sia spuntato dal nulla, quasi in modo “naturale”. Dunque Dio non c’entra, mentre probabilmente c’entrano gli uomini che volendo farsi come Dio, manipolano la natura generando dei mostri. Ma questo, probabilmente, lo sapremo tra qualche decennio.
Tuttavia, il mancato coinvolgimento di Dio nell’attribuzione delle colpe del coronavirus, potrebbe rappresentare anche una certa emarginazione della trascendenza dalla vita delle persone. Dio non c’entra, ma non soltanto per quanto riguarda il virus, non c’entra in generale con la vita delle persone.
Certamente si sono registrati un po’ dovunque segnali di incremento della preghiera personale e familiare e di solidarietà verso i bisognosi. Ma se queste cose vengono fatte senza interrogarsi sul ruolo di Dio nelle vicende umane e personali, potrebbero rappresentare ancora una volta il tentativo di superare l’emergenza e non un’occasione per dare un senso nuovo alla propria esistenza. Infatti, soprattutto in Italia, siamo ormai abituati ad affrontare le emergenze, senza mai risolvere i problemi strutturali. Anche nella vita spirituale corriamo questo rischio.
C’è un’emergenza? Allora preghiamo, aiutiamoci ma, quando l’emergenza passa, torniamo alla solita vita. Anche lo slogan ufficiale di questa pandemia “andrà tutto bene” a mio avviso può nascondere quell’atteggiamento mentale tipicamente italiano: “ha da passa’ ’a nuttata”. Certamente resta valido il detto primum vivere deinde filosofare, ma qui non si tratta di speculazioni filosofiche, si tratta di vivere con fede. Un atteggiamento di fede, infatti, all’augurio “andrà tutto bene” preferisce la certezza biblica “tutto concorre al bene” (Rm 8, 28). Dio c’entra nella vita degli uomini, non perché sia causa del male, o solo perché ha il potere di farcelo scampare, ma perché egli sa trarre il bene anche dal male.
Il coronavirus, dunque, ci offre un’ulteriore e magnifica occasione di riflettere sul ruolo di Dio nella nostra vita. Occorre essere attenti a non sprecarla perché si tratta di un esercizio fondamentale per tutti coloro che cercano la verità.

Pubblicato in EDITORIALI su l'Aurora Serafica | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su Dio non c’entra. O forse sì?

Questa è provvidenza!

L’Italia è sempre più anziana! Secondo recenti stime i nuovi nati in Italia l’anno scorso sono stati appena 458 mila, record negativo dal 1861. Rispetto al 2008, nel 2018 sono nati circa 120 mila bambini in meno.

Purtroppo questi dati bisogna dirli sottovoce perché sembra che in Italia, parlare della necessità di incrementare le nascite urti la sensibilità di chi sostiene le pratiche abortive. Infatti, ogni volta che un manifesto “pro vita” appare in qualche città, subito si levano proteste e urla per farlo rimuovere.

Finalmente qualcuno ha rotto questo tabù e ha deciso con grande coraggio di schierarsi dalla parte della vita e di venire allo scoperto.

Si tratta del barone Vitantonio Colucci, fondatore e titolare del gruppo Plastic-Puglia con sede a Monopoli (BA). Più volte premiato per i successi in campo lavorativo, Colucci ha sviluppato un’impresa leader a livello mondiale nel settore dell’irrigazione di precisione che occupa oltre 150 dipendenti e alimenta un indotto di decine di migliaia di persone.

Recentemente la cronaca nazionale si è occupata del Barone perché ha destato meraviglia l’iniziativa da lui lanciata: un bonus di 6mila euro per i propri dipendenti che mettono al mondo un figlio.

A quanti chiedevano spiegazioni Colucci ha dichiarato: «Dal momento che lo Stato italiano non dedica particolare attenzione a chi fa figli, ho deciso di promuovere le nascite dei figli dei miei dipendenti».

Come dare torto all’imprenditore nostro conterraneo? In una Italia che, nonostante il sovraindebitamento pubblico, continua a spendere e a sprecare risorse nei modi più vari, solo quando si tratta di famiglia e di sostegno alla natalità non si riescono a trovare le coperture finanziarie.

L’iniziativa di Vitantonio Colucci è sicuramente da lodare, non solo per i motivi appena detti, ma anche perché il “Premio nascita Lilly Colucci” è stato dedicato alla memoria della figlia dell’imprenditore scomparsa prematuramente. In tal modo egli dimostra anche di aver saputo trovare una risposta positiva, che esprime la forza della vita, al dramma della morte che ha visitato la sua famiglia.

Il Barone ha anche dichiarato: «L’idea ispirata da Lilly, sono certo, costituirà un sicuro punto di riferimento non solo per le aziende ma anche per lo Stato nazionale». Speriamo che abbia davvero ragione.

Pubblicato in EDITORIALI su l'Aurora Serafica | Commenti disabilitati su Questa è provvidenza!

Age quod agis

Nella sacrestia della chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo (la chiesa edificata al tempo di Padre Pio) ai piedi della porta che introduce all’altare c’è un mosaico abbastanza grande, indubbiamente visibile, con la scritta “age quod agis”.
Si tratta di un antico detto latino che letteralmente si traduce “fai ciò che fai” e mentre sembrerebbe una tautologia o un’affermazione lapalissiana, rappresenta invece un insegnamento profondo di vita.
Age quod agis, sono tre parole che oggi più che mai andrebbero ripetute come un mantra, andrebbero scritte sulle porte delle case, sulle pareti dei luoghi pubblici, sugli schermi dei computer e in ogni luogo dove si posa lo sguardo.
Questo motto è innanzitutto un invito alla concentrazione. In una società che spinge verso il multitasking cioè verso la capacità per l’essere umano di fare più cose contemporaneamente, age quod agis invita a rilassarsi, a fare le cose una per volta, come ad esempio mangiare senza contemporaneamente guardare la tv e chattare sullo smartphone.
“Fai ciò che fai” in fondo vuole dire “fai bene ciò che fai”: se stai lavorando, lavora; se stai pregando, prega; se sei in compagnia, socializza; se stai mangiando, gusta; se stai guidando, guida e basta.
I vantaggi di questo atteggiamento possono essere notevoli. Ci si può accorgere che il cibo ha un sapore speciale, che ci sono dettagli che mai avevamo notato, che la nostra felicità passa nella relazione con le persone che ci sono accanto. Inoltre, age quod agis è l’unico modo per mantenere la connessione tra spirito, mente e corpo evitando il pericolo della disgregazione. E poi, meno distrazione significa meno pericoli e meno rischi in casa, per strada, sul posto di lavoro.
Age quod agis, però, non è solo questo. Infatti, il motto si può anche tradurre con “renditi conto” o “abbi consapevolezza” di ciò che fai. Si tratta di un invito alla responsabilità personale, alla ponderazione di tutte le implicazioni di ogni atto umano. Ognuno deve rendersi conto delle conseguenze dei suoi atti, delle sue scelte, dei suoi comportamenti. Questo vale per tutti gli esseri umani, per il fatto che vivono in una società, sono connessi ad altre persone attraverso i vincoli di parentela, hanno responsabilità di diversa natura. Tuttavia, il richiamo dovrebbe assumere un senso tutto particolare per coloro che appartengono alla Chiesa, fanno parte del Corpo mistico e sono tenuti a dare testimonianza delle realtà divine. Soprattutto coloro che hanno delle precise responsabilità sugli altri e verso gli altri dovrebbero sentire la necessità di essere consapevoli del significato delle loro azioni e non è un caso se questo monito viene rivolto in particolare a ogni nuovo sacerdote durante il rito dell’ordinazione: “renditi conto di ciò che farai”.
Insomma, a tutti i livelli e in ogni settore della società e della Chiesa è necessario che il motto age quod agis diventi una norma di vita, perché la consapevolezza delle proprie azioni le renda utili, profonde, saporite e non pericolose tanto per chi le compie quanto per tutti coloro che ne subiscono gli effetti.

Pubblicato in EDITORIALI su l'Aurora Serafica | Commenti disabilitati su Age quod agis

C’è missione e “missione”

In principio erano i missionari. Uomini e donne animati da una forte fede e da una grande compassione per gli esseri umani, soprattutto quelli dei paesi più poveri. Partivano per annunciare il Vangelo nelle terre lontane e, insieme alla Parola di Dio, promuovevano il progresso integrale delle persone e dei popoli. Dal loro bagaglio culturale tiravano fuori le conoscenze tecniche per avviare progetti di sviluppo, per creare cooperative sociali, per scavare pozzi, organizzare scuole, orfanotrofi e ospedali. Insomma, l’amore per Dio e l’amore per l’uomo dava vita all’azione sociale tesa a risollevare i più poveri dalla miseria economica, dallo sfruttamento e dal degrado sociale. Anche il nostro Ordine religioso ha generato, e continua ancora a generare, schiere di missionari che, sostenuti dalla generosità della nostra gente, portano in varie parti del mondo il Vangelo e lo sviluppo. Pensiamo, solo per citarne uno, a Padre Prosperino Gallipoli, un missionario della nostra terra che in Mozambico ha costituito centinaia di cooperative per la coltivazione dei campi e l’allevamento degli animali, creando così migliaia di posti di lavoro e garantendo un sostentamento dignitoso a tantissime famiglie. Poi è iniziata l’era delle ONG. Anche persone non religiose, talvolta atee, ma animate da forti ideali umanitari, hanno sentito il desiderio di operare a favore dei popoli sottosviluppati avviando progetti sociali e assistenziali. Sono sorte così le ONG di cooperazione allo sviluppo quali libere associazioni, create da privati cittadini che, per motivazioni di carattere ideale, si impegnano a titolo privato e diretto, per dare un contributo alla soluzione dei problemi del sottosviluppo dei paesi più svantaggiati. Tuttavia, la cronaca di questi ultimi tempi ci mostra un tipo diverso di ONG che non si occupa tanto di progetti di sviluppo economico, né di creazione di scuole e ospedali, né di costruzione di depuratori d’acqua e di bonifiche nei paesi più poveri. Questa nuova forma di ONG si occupa solo di trasportare i migranti dalle coste africane a quelle europee. Una “missione” che ha insospettito non poco persino la magistratura. Numerosi sono gli interrogativi sui finanziamenti che ricevono queste organizzazioni, sui loro scopi, sui loro rapporti con i trafficanti di esseri umani, sulla loro rete di protezione. In buona sostanza, mentre i missionari, animati da uno spirito di fede, continuano ad andare nei posti più svantaggiati per favorirne lo sviluppo spirituale e quello socio-economico, alcune ONG hanno deciso che la fatica di lavorare per questo progresso sia inutile e che favorire l’emigrazione di intere popolazioni sia la soluzione di tutti i loro problemi.

Pubblicato in EDITORIALI su l'Aurora Serafica | Commenti disabilitati su C’è missione e “missione”