Le dinamiche dell’opinione pubblica e la Chiesa cattolica (2)

PREFAZIONE

L’opinione pubblica, il conflitto e un papa venuto dalla fine del mondo

di Stefano Cristante

L’opinione pubblica è una questione ben complicata travestita da cosa semplice e abitudinaria. Ne esistono diverse accezioni. Esaminiamone velocemente qualcuna. Capita di continuo a ognuno di noi di esprimere un giudizio o di dare una valutazione su una qualsiasi cosa; l’insieme dei nostri giudizi e delle nostre valutazioni su un oggetto determinato formerebbe poi un orientamento generale, che diviene dominante. Questa, secondo alcuni, sarebbe l’opinione pubblica.

Secondo altri, il sistema dei sondaggi guiderebbe il riconoscimento delle opinioni più diffuse, e sarebbe quindi il vero artefice dell’opinione pubblica: per capire cosa pensano le persone su un determinato fenomeno, basterebbe intervistarle e poi fare dei calcoli, più o meno sofisticati, per giungere a percentuali che segnalano la forza o la debolezza di certe opinioni (forse sarebbe più corretto scrivere “opzioni”).

C’è chi pensa che l’opinione pubblica sia un gruppo sociale, magari non perfettamente stabile, che identifica lo strato più colto e informato della società, quello che si dimostra più influente sugli altri. Infine, c’è chi ritiene che l’opinione pubblica sia una simulazione, e che il vero ruolo di produzione e di diffusione degli orientamenti e delle opinioni sia proprio dei media, nella versione generalista odierna ormai mischiata con quella che Manuel Castells ha chiamato “autocomunicazione di massa” e che molti riassumono con l’imprecisa etichetta di social media.

Attraverso queste e diverse altre interpretazioni si è costruita una stratigrafia di significati (sociologici, antropologici, politologici, massmediologici, eccetera) che Ruggiero Doronzo sintetizza nella prima parte del suo lavoro: ogni autore che si cimenti con l’opinione pubblica è costretto a riprendere la questione daccapo e possibilmente con occhi diversi, a maneggiare un certo numero di autori e a segnalare – tra le tante interpretazioni – quelle che possono sembrare maggiormente foriere di significatività. Dal canto mio, posso solo dirmi grato a Ruggiero per aver incamerato alcune mie riflessioni sulla materia organizzate intorno all’idea della doxasfera, che ho avuto modo nel corso degli anni di pubblicare e di comunicare nelle aule universitarie ai miei studenti (tra cui, mite ma decisamente non imbelle, lo stesso Ruggiero). Sulla sintesi di prammatica che l’autore fa sui diversi filoni interpretativi dell’opinione pubblica non mi resta nulla da dire se non che il lettore interessato si troverà a proprio agio nella sua attenta riproposta.

Il punto centrale del lavoro di Doronzo, tuttavia, è il rapporto tra opinione pubblica e Chiesa cattolica. Su questa relazione si costruisce la novità del lavoro che state per leggere. I motivi sono intuibili: la Chiesa è una delle più antiche istituzioni del mondo nonché una delle più influenti sugli orientamenti di massa. Il confronto tra il messaggio della Chiesa e le idee mondane è da sempre al centro del dibattito, sia intellettuale sia popolare.

Qual è dunque la concezione della Chiesa rispetto a quel complesso insieme di fenomeni che chiamiamo “opinione pubblica”? L’autore prende pazientemente le mosse dal pensiero di Pio XII, un papa che visse la speciale condizione di essere l’ultimo erede di una tradizione in via di estinzione (i papi-re) e il primo ad assistere alla nascita del più avveniristico dei mezzi di comunicazione dell’epoca, la televisione. Pio XII fu anche il primo papa ad essere “mandato in onda”, e alla tv dedicò il centro delle sue riflessioni nell’enciclica Miranda Prorsus (“Le meravigliose invenzioni”, 1957). Venuta dopo il cinema e la radio, la televisione offrì al pontefice l’occasione di riflettere sul rapporto tra mezzi elettronici e “moltitudini”: l’accelerazione tecnologica dava il via a una stagione nuova, dove l’informazione e l’educazione dei popoli diventavano assai più rapidi e così le opportunità apostoliche e i rischi materialistici. L’enciclica parla esplicitamente a tutta la filiera produttiva dell’audiovisivo, dai registi ai produttori, dagli attori ai giornalisti, dai distributori ai consumatori. Tutte queste figure devono svolgere il loro compito in modo accurato, obbedendo a una logica pastorale attentissima alle questioni organizzative: il mondo cattolico deve predisporsi all’azione dei mezzi di comunicazione attraverso organi di valutazione e di giudizio, segnalando ciò che risponde all’etica cristiana e ciò che ne è fuori. Il richiamo del papa è anche all’attivismo dei radio-telespettatori, che devono essere capaci di far sentire la propria voce alle gerarchie produttive. L’impostazione dell’enciclica batte più volte sugli stessi tasti: novità del mezzo, opportunità per la diffusione del messaggio cristiano, necessità di un ascolto attivo e critico, grande cura nella produzione e nella ricezione dei messaggi. Anche i sondaggi sul gradimento dei programmi (ciò che decenni più avanti diventerà l’Auditel) vengono esaminati con lo stesso atteggiamento: «I metodi moderni di sondaggio della pubblica opinione, permettendo di misurare il grado di interesse che hanno suscitato le singole trasmissioni, sono certo di grande aiuto ai responsabili dei programmi; ma l’interesse più o meno vivo suscitato nel pubblico può essere spesso dovuto a cause transitorie o a impulsi non ragionevoli, e non è quindi da considerarsi un sicuro indice della retta norma di agire».

Una sorta di accettazione sub iudice della modernità comunicativa, che diventa monito di fronte a una possibile potenza negativa dei mass media: «Questo problema è diventato particolarmente urgente quando, con la radio, e soprattutto con la televisione, lo spettacolo può aversi con tutta facilità tra le stesse pareti domestiche, minacciando le difese che devono tutelare la sana educazione della prole, sì da assicurare all’età evolutiva la virtù necessaria ad affrontare vittoriosamente le tempeste del secolo. A tale proposito scrivevamo tre anni or sono ai Vescovi d’Italia: “Come non inorridire al pensiero che, mediante la televisione, possa introdursi fra le stesse pareti domestiche quell’atmosfera avvelenata di materialismo, di fatuità e di edonismo che troppo sovente si respira in tante sale cinematografiche?”».

Questi elementi di riflessione e d’impostazione erano presenti nello scritto sull’opinione pubblica del 1950 che Doronzo cita diffusamente nel suo lavoro: Pio XII prende in primo luogo atto dell’ineluttabilità della società moderna che stabilisce delle regole universali, in dissonanza con i precedenti periodi storici. A questo riguardo, è indicativo il modo di ritenere l’opinione pubblica un pilastro della contemporaneità: «Là ove non apparisse alcuna manifestazione dell’opinione pubblica, là soprattutto ove se ne dovesse rilevare la reale inesistenza, qualunque sia la ragione per spiegare il suo mutismo o la sua assenza, si dovrebbe scorgere un vizio, una infermità, una malattia della vita sociale». Questo modo di riflettere e di “riconoscere” l’opinione pubblica va associato anche al grande shock dei totalitarismi novecenteschi. Le brutali esperienze dei regimi totalitari hanno reso evidente che rompendo il legame tra libertà e politica la società muore, lasciando posto solo all’ordine gerarchico e alla violenza.

L’opinione pubblica viene riconosciuta da Pio XII come fondamentale rappresentazione e rielaborazione dei fatti del mondo da parte di persone “responsabili”. Interessa molto, al pontefice, presentare i rischi di una visione dei fatti del mondo priva di una guida organizzata e giudiziosa: fuori dal perimetro della comunità, l’individuo risponde a sollecitazioni emotive, passionali e momentanee. Occorre invece una ponderazione saldamente ancorata a valori cristiani, evidentemente capaci di tenere insieme razionalità e fede, una sorta di strada maestra che raccoglie l’eredità dell’Illuminismo – purgata dalla verve iconoclasta e anti-religiosa – e la trasferisce nelle comunità cristiane assistite dalla fede. In questo modo la propensione raziocinante diventa sinonimo di equilibrio etico, che va nutrito attuando incessantemente una sorveglianza attenta sulle interpretazioni dei fatti del mondo. Si tratta dunque di far crescere gruppi di cristiani consapevoli della posta in gioco nel perimetro della modernità: la ricerca della verità affiancata da un uso degli strumenti più efficaci per stare nel mondo sviluppa un atteggiamento positivo rispetto ai media e possibilista rispetto alla costruzione di opinione pubblica, in contrapposizione ad atteggiamenti deboli e privi di difesa rispetto ai “manipolatori dei ritrovati della tecnica moderna”. Il bersaglio polemico dunque non manca: la modernità è di nuovo accettata sub iudice, con la consapevolezza che le nuove prerogative del mondo possono essere utilizzate per frammentare la ragione umana in un pulviscolo di desideri e di tentazioni, distanti tanto dalla libertà quanto dalla ragione.

È questo lo schema dominante della riflessione del papa sull’opinione pubblica: a) riconoscimento della sua esistenza e del suo rilievo nella contemporaneità; b) insistenza sull’uso razionale dei mezzi di comunicazione; c) formazione di una classe dirigente cristiana addestrata all’uso dei media e in grado di ampliare le vedute delle moltitudini cattoliche.

Nel processo più vistoso di rinnovamento del cattolicesimo, vale a dire il Concilio Vaticano II, il centro del discorso su media e opinione pubblica passa all’interno della realtà cattolica: è anche dentro la Chiesa che va assicurata la circolazione dei flussi dell’informazione (su “scala mondiale”), tra gerarchie, istituzioni e fedeli. Una domanda-chiave comincia dunque a presentarsi: l’opinione pubblica va intesa come fenomeno esclusivamente mondano con cui confrontarsi oppure una pratica da mantenere con cura anche dentro la cornice ecclesiastica? Nel “mondo” il cristiano partecipa all’opinione pubblica prodigandosi a difesa dei valori spirituali della propria fede. Ma quando si tratta di confronto interno alla Chiesa come si può riuscire ad affrontare una discussione nello stesso tempo serrata e composta? Come evitare ogni tendenza scismatica pur dando un grande valore alla schiettezza e al radicalismo di cui si nutre la ricerca cristiana della verità? La risposta del Concilio e del papa che ne gestì la maggior parte delle conseguenze – Paolo VI – punta ancor più di prima su un atteggiamento pedagogico diffuso: le dinamiche dell’opinione pubblica possono esporre il cristiano a confusione, enfasi emotiva, superficialità. I semplici vanno protetti, e le sfide che pongono l’organizzazione mediatica e l’espressione dell’opinione pubblica vanno raccolte e indirizzate al singolo credente. Quest’ultimo deve aprirsi al mondo e ai suoi flussi di comunicazioni, restando consapevole della necessità di difendere “la nostra coscienza nativa, illuminata da principi logici e morali superiori”. “Principi logici e morali superiori”: forse oggi si proverebbe un po’ di imbarazzo a usare questo tipo di espressioni, anche se il bersaglio della “coscienza nativa” non è in questo caso rappresentato da altre religioni o da altre discipline del pensiero ma dallo stesso flusso della comunicazione di massa, cui Paolo VI dedica parole assai suggestive (“magia invisibile, ma strapotente, della marea dell’opinione pubblica”).

Ruggiero Doronzo dedica pagine molto utili a comprendere come la visione dell’opinione pubblica dei pontefici della modernità sia stata in gran parte ispirata al contesto che oggi definiamo globale: l’accento di Paolo VI sulla necessità – forse anche di più: sull’impellenza – di sviluppare opinioni di pace si coglie meglio registrando le grandi tensioni della guerra fredda, mentre il successivo (e costante) discorso di papa Wojtyla sulle responsabilità dei leader d’opinione va collegata al mutamento del mondo in seguito al crollo della piattaforma del socialismo reale e alle angosciose vicende delle dittature sudamericane.

In tutti i pontefici vi è inoltre un atteggiamento assai simile riguardo alla linfa dell’opinione pubblica, cioè la comunicazione. Pur passando da un primo coinvolgimento negli allora nuovi media da parte di Pio XII alla dimestichezza di Wojtyla verso le immagini televisive, il discorso sulla comunicazione rimane fortemente ancorato alla volontà di utilizzo delle tecnologie. Usare bene le tecnologie, naturalmente. Renderle adatte a un arricchimento culturale e possibilmente spirituale.

Qui incontriamo il problema che Marshall McLuhan ha sintetizzato in un famosissimo aforisma: “The medium is the message”. Se il mezzo è il messaggio, la questione dell’uso abbandona una deriva intuitiva e chiede maggiore approfondimento. McLuhan, quando sentiva dire che la tv (o qualsiasi altro medium) non era buono o cattivo di per sé, ma secondo l’uso che se ne faceva, replicava che si trattava di proposizioni assurde. Per il massmediologo, l’affermazione avrebbe avuto lo stesso senso di quest’altra: “La pistola non è buona o cattiva di per sé, dipende dall’uso che se ne fa”. Per McLuhan esisteva una forma tecnologica del medium imprescindibile, legata alle sue modalità di creazione e di consumo. La questione andava perciò sganciata dai cosiddetti “contenuti”. Non è programmando Bambi al posto di un talk show che “il messaggio” della tv cambia. Perché il messaggio della tv non è il suo contenuto momentaneo, ma la sua forma stabile. Invece per decenni (e in fondo anche ai nostri giorni) chi ha commentato i media di massa ha creduto di piegarli alle proprie logiche. Naturalmente va accettato che esistano “usi” più conformi al messaggio generale di un mezzo: si può usare il calcio di una pistola per battere un chiodo, ma non si tratta certo dell’uso che risponde al suo messaggio tecnico.

McLuhan giunse al cattolicesimo da adulto (proveniva da una famiglia protestante): scelse liberamente il suo credo e non mancò mai di sottolineare i suoi motivi di interesse anche teologico nei confronti del cattolicesimo. Eppure non fu molto compreso dalle gerarchie ecclesiastiche: il moralismo e l’esercizio della censura – che la Chiesa mise in atto in modo scoperto soprattutto verso la televisione italiana – non erano al centro della sua visione dei media. Il fulcro della sua riflessione – pienamente decollata nel primo quinquennio degli anni ’60 – coincideva con il riconoscimento di una grande rivoluzione comunicativa nel ‘900, che avrebbe portato come conseguenza una visione “comunitarista” della società, soprattutto da parte delle generazioni più giovani, cresciute con il consumo televisivo. Recuperando l’idea di un mondo concepito come villaggio e aggiungendo strategicamente l’aggettivo “globale” (così da formare l’espressione global village, altra sua celeberrima espressione) McLuhan sottolineava l’insorgenza di una nuova cultura neo-tribale dovuta all’azione pervasiva dei media elettrici ed elettronici, a impatto sempre più marcatamente audio-visivo. La scrittura, dominatrice mediatica di un mondo a egemonia meccanica e logica, lasciava il posto alle immagini e ai suoni veicolati da schermi e apparati radiofonici.

Ad una visione rivoluzionaria dei mezzi di comunicazione come quella di McLuhan la Chiesa non è mai approdata. Tuttavia essa ha accolto l’importanza dei nuovi mezzi: non li ha rifiutati né li ha oscurati, rimanendo fedele a un’impostazione millenaria di disponibilità verso tutto ciò che consente maggiore diffusione del messaggio evangelico in tutte le direzioni di proselitismo. La Chiesa, fin dall’epoca dei suoi primi apostoli, ha sempre privilegiato tutte le forme utili per entrare in contatto con l’altro. Volendo svolgere una rapidissima intrusione in campo teologico, non è poca cosa riconoscere nello Spirito Santo una declinazione della divinità con propensioni epifaniche verso la comunicazione. La collocazione nella Trinità cristiana di una presenza divina deputata a fertilizzare, estendere e rafforzare il dominio interattivo è di per sé il segnale esplicito di un’importanza strategica attribuita alla sorgente comunicativa: dallo Spirito Santo gli apostoli sono messi in condizione di parlare con chiunque comprendendo chiunque qualsivoglia lingua parlasse. I doni della comunicazione permettono il confronto, la predicazione e il convincimento. Una chiave in più per entrare in comunione con l’altro, una sorta di intensificazione scaturita dall’interazione grazie alla potenza comunicativa.

Vi è sempre stata, quindi, un’attenzione ecclesiastica ai modi e ai valori della comunicazione. Se non sempre vi è stata capacità di evitare la riproposizione dei pregiudizi culturali da parte della Chiesa cattolica – come testimoniano le conversioni forzate dei nativi americani dopo la scoperta dell’America o le confessioni strappate con la tortura a eretici e devianti durante il periodo dell’Inquisizione – tuttavia ai giorni nostri non si può negare un tentativo molto ambizioso di parlare “al mondo” con gli strumenti del rispetto e della tolleranza.

La Chiesa del pontefice Jorge Mario Bergoglio sembra totalmente aperta alla comunicazione, e inoltre capace di rinunciare alla dimensione spettacolare che i media di massa tendono a imporre a tutte le istituzioni di primo piano nel mondo. Papa Francesco ha imposto un modo di comunicare che non rinuncia ad alcun ambito (tv, twitter, radio, stampa, eccetera) ma che si sviluppa soprattutto nella riscoperta di un linguaggio diretto e “a braccio” davanti ai fedeli, intensificando così le potenzialità di una rappresentazione reale, normale, familiare. Il pontificato di Bergoglio sembra guidato – sia negli atteggiamenti performativi del papa, sia nelle decisioni dei suoi principali collaboratori comunicativi (si veda l’ultima parte del lavoro di Ruggiero Doronzo e in particolare le interviste a padre Lombardi e a Monsignor Viganò) – da una propensione alla modificazione antropologica del cristiano. Rinunciando ai “principi logici e morali superiori” di montiniana memoria (“Chi sono io per giudicare un gay?”), Bergoglio si pone all’ascolto della società, ne intercetta il desiderio di cambiamento, elimina ogni orpello possibile dai propri atti comunicativi.

Si tratta di un ciclone inaspettato, anche da parte degli studiosi specializzati. Un ciclone che nasce non solo nel grembo del mondo cattolico popolare, ma anche dall’inusitata novità del ritiro di papa Ratzinger dal pontificato. Bergoglio rappresenta un ciclone che nasce da una rinuncia, da uno stato di prostrazione. Possiamo affermare con certezza che i pontefici sono influenzabili dall’opinione pubblica? Secondo me ci sono pochi dubbi sul fatto che Benedetto XVI abbia percepito una propria difficoltà strutturale a governare di fronte alle tante proteste del mondo (anche e soprattutto cattolico) nei confronti delle mancanze della Chiesa. L’opinione pubblica, intesa in questo caso come gruppo esteso di cittadini informati (mediaticamente) dei fatti, aveva mostrato segnali preoccupanti di scollamento dai tradizionali vincoli di fede e di legittimazione del clero. La scelta inaspettata di papa Ratzinger e quindi l’elezione di papa Bergoglio hanno costituito un doppio segnale di svolta.

Vorrei dire, in sostanza, che da tempo uno “stato di quiete” è inadatto a rappresentare le dinamiche della religiosità cattolica. Il lavoro di Doronzo mette in evidenza l’attenzione che la Chiesa ha riservato a una questione, quella dell’opinione pubblica, che ne nasconde molte altre. Nel corso dell’ultima metà del Novecento e nei primi anni del Duemila le gerarchie cattoliche hanno agito consentendo lentamente una secolarizzazione del proprio linguaggio mediatico e accettando il ruolo di leader di opinione corali, eccedenti la semplice influenza sulla sola organizzazione religiosa e sul mondo dei fedeli (per fare un solo esempio, la voce pacifista di Giovanni Paolo II nei conflitti successivi all’11 settembre 2001). Ora, in seguito a un cambiamento epocale nel comportamento di un pontefice (le “dimissioni” di Ratzinger), si è aperto un varco attraverso cui il nuovo papa sembra voler far passare un messaggio di recupero delle radici popolari e austere della cristianità e una proposta di alleanza socio-culturale a favore dei poveri e degli oppressi della globalizzazione.

Senza voler forzare il modello della doxasfera – che prevede quattro attori stabili nelle dinamiche di opinione: decisori, gruppi di pressione, media e moltitudini – appare assai plausibile che il pontificato di papa Bergoglio fornisca lo spunto per una piccola riflessione sull’opinione pubblica “interna a un’istituzione”, con possibili ricadute su una concezione doxologica più generale.

Procediamo con ordine. In primo luogo i decisori (il Conclave) hanno scelto il Cardinale Bergoglio come pontefice e come successore di un papa (eccezionalmente) dimissionario. La scelta è stata compiuta attraverso un voto personale, ma ciascun avente diritto rappresenta, in seno al Conclave, qualcosa di più di un singolo. Ogni alto prelato rappresenta infatti una storia e un percorso, e un’interfaccia attiva con ordini, congregazioni e altri tipi di organizzazioni specifiche. Possiamo quindi ritenere plausibile un senso di accordo tra il singolo votante e sensibilità diffuse nel mondo cattolico. Ecco quindi la presenza di una linea armonica che si concretizza in un nome reale. Se non disturba troppo la mondanità dell’espressione, si tratta di qualcosa di vicino a ciò che nel modello della doxasfera prende il nome di “gruppi di pressione”. Infine, dalla prima uscita di Bergoglio come papa Francesco (“Fratelli e sorelle: buonasera”), la sua figura e la comunicazione che l’ha accompagnata hanno incontrato un altissimo gradimento tra le moltitudini cattoliche.

Eppure non vi è nulla di più distante da questa situazione di uno stato di quiete. Sotto l’accordo – apparentemente straordinario – tra tutti gli attori della doxasfera interna alla Chiesa si agitano bisogni e prerogative diseguali: provengono da influenti rappresentanti di diverse organizzazioni e dalla vita stessa di queste organizzazioni e dalla loro base di massa.

La situazione è in pieno movimento. Le scelte operate dal papa in molteplici direzioni (dagli scenari internazionali praticati per ricongiungere – come nel caso dell’ausilio alla riapertura delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti – alla volontà di vicinanza agli ultimi della Terra) scuotono le fondamenta dell’istituzione millenaria di cui egli è il massimo rappresentante. Pensare che questo formidabile processo possa svolgersi in assenza di conflitti è, a mio parere, utopistico.

Si tratta, d’altronde, di prendere atto che anche nelle istituzioni religiose il ruolo dei decisori può armonizzarsi o differenziarsi con quello dei gruppi di pressione; che il ruolo dei media può accordarsi o distaccarsi dalle istanze delle moltitudini. E anche: che i decisori possono armonizzarsi o differenziarsi al proprio interno, e così via per gli altri attori.

In sostanza, credo che per ragionare di opinione pubblica occorra accettare un surplus di lavoro sul tema del conflitto. Le idee nuove non si impongono con la forza (anche se non pochi potenti lo vorrebbero), ma nemmeno si affermano seguendo percorsi magicamente composti e ordinati. Il convincimento è opera dura e mai scontata. I punti di resistenza al cambiamento molteplici. Gli uomini e le donne della nostra contemporaneità non sono poi così lontani dall’atteggiamento di colui che non crede se non vede e se non tocca con mano: troppe volte – sia nella sfera religiosa sia nella sfera mondana – le moltitudini sono state deluse. Né d’altronde sostituire questo atteggiamento iperrealistico con l’osservanza assoluta del credente verso la gerarchia e le sue proposte potrebbe essere considerato di per sé saggio. Resta quindi il nodo di come ammettere criticamente l’autorevolezza dell’opinione pubblica, un sistema comunicativo che si basa sul conflitto. Può il conflitto assumere caratteri non distruttivi? Può il conflitto prendere la forma di un dialogo serrato, ma pacifico? Può il conflitto dotarsi di un’aura non negativa?

Queste sono domande centrali per cogliere l’utilità teorica e pratica di quel luogo metaforico che la sociologia e l’informazione hanno chiamato opinione pubblica, e che in realtà riguardano sia l’organizzazione sociale sia l’organizzazione religiosa. Nel nostro scorcio di XXI secolo la Chiesa sta costruendo un percorso ardito di cambiamenti, e il suo interno ribolle di entusiasmi e di scetticismi. Ma l’interno e l’esterno, a me pare, mai come oggi sono stati così in contatto. Le risposte di partecipazione alla vita da parte dei cittadini e dei fedeli mai come oggi sono state intrecciate. Forse perché la lungimiranza del pensiero religioso ha percepito, mentre le tecnologie più incredibili si affinano e le disuguaglianze più terrificanti si stabiliscono, il rischio che sul nostro intero mondo cali una cappa di ingiustizia capace di riportare molto indietro le lancette della storia, e con essa ogni sogno di fratellanza universale. Cioè, per un cattolico, di ogni speranza di incontrare in questo mondo l’amore di Dio attraverso gli altri.

Lecce, giugno 2015

Le dinamiche dell’opinione pubblica e la Chiesa cattolica (2)ultima modifica: 2015-10-19T22:30:31+02:00da ruggierodoronzo
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