Nasce un bambino ma ce ne vorrebbero tanti

Nel tempo di Natale in tutte le chiese cristiane si canta: “Gioite, esultate, perché è nato un bambino, un figlio ci è stato donato”. Purtroppo, la stessa esclamazione di gioia che riguarda la nascita di Gesù bambino da tempo non si sente più in una grande fetta delle famiglie italiane. Infatti, i dati pubblicati dall’Istat nel rapporto “Natalità e fecondità della popolazione residente” sull’anno 2017 mostrano uno scenario allarmante. Nel 2017 sono stati iscritti all’anagrafe per la nascita 458.151 bambini, oltre 15mila in meno rispetto al 2016. Nell’arco di tre anni (dal 2014 al 2017) si è registrato un calo di circa 45mila nascite mentre sono quasi 120mila in meno rispetto al 2008. La denatalità è particolarmente accentuata nelle coppie di genitori entrambi italiani, che scendono a 358.940 nel 2017 (14mila in meno rispetto al 2016 e oltre 121mila in meno rispetto al 2008). Il calo delle nascite si riflette soprattutto sui primi figli: diminuiti del 25% rispetto al 2008. Una tendenza che si sta consolidando negli ultimi anni. Nello stesso arco temporale i figli di ordine successivo al primo si sono ridotti del 17%. Sembrerebbero le cifre di un bollettino di guerra. A rendere sconcertanti questi dati è la costatazione da parte dell’Istat che fra gli italiani non sta prendendo piedi un modello di vita sociale che non prevede l’avere figli, ma le donne non riescono a realizzare un desiderio di maternità. Questo è un dato nuovo e per chi deve intervenire a sostenere le donne e le famiglie in questo percorso è importante. Di recente la Germania, in condizioni anche più critiche dell’Italia e con cui si contende il primato di Paese più vecchio, ha messo in campo un grande numero di iniziative a sostegno della natalità che ha prodotto un aumento delle nascite continuo negli ultimi 5 anni. Guardando all’Italia sembra concretizzarsi lo scenario proposto nel film “I figli degli uomini” (2006) di un mondo dove non nascono più figli e il protagonista realizza: «Non ricordo più l’ultima volta che ho avuto speranza, non ricordo più quando l’ha avuta qualcun altro. Perché, in fondo, da quando le donne non possono più avere figli, che speranza ci può mai essere?». Tuttavia, è proprio il Natale a ridarci la speranza perché nella grotta di Betlemme, nelle case, nelle chiese e tra la gente la vita torna a fiorire. E anche nella situazione italiana ci sono ancora i margini per invertire la rotta, ad esempio modificando e migliorando le modalità di calcolo del reddito di cittadinanza con l’introduzione del criterio dei carichi familiari, per calibrarlo in modo più equo. Ma ormai non c’è più tempo da perdere. Il Natale ormai prossimo, e il Bambino che nasce nella Santa Famiglia, siano di buon auspicio per le famiglie italiane e diano ai giovani sposi la forza di fare scelte coraggiose e alle istituzioni la coscienza di quanto importante sia il tema della natalità per il futuro del Paese e dell’umanità.

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Quando la stoltezza viene scambiata per civiltà

Il mio padre maestro del noviziato, un uomo saggio e prudente, ogni volta che guardava il telegiornale ad un certo punto si alzava dalla sedia borbottando qualcosa e si ritirava in camera sua a pregare. Per lui il telegiornale terminava con le notizie dall’Inghilterra e quando queste arrivavano, lui appariva perplesso, forse un po’ infastidito, e se ne andava via citando un versetto biblico che dice: “o popolo stolto e insipiente”. La sua analisi comunicativa delle notizie dalla Gran Bretagna era lucidissima: da quel paese arrivano solo notizie superficiali! Come dargli torto? Nella maggior parte dei casi è vero. Dai servizi dei nostri telegiornali sembra che, mentre in tutto il mondo ci siano tensioni sociali, problemi politici, crisi economiche, al di là della Manica le uniche preoccupazioni siano il cappellino della regina, la carrozza della principessa o la visita del principe a qualche associazione di beneficenza. Tuttavia, di tanto in tanto, qualche finestra sulla realtà si apre e così scopriamo che quello non è il paese delle fiabe. Il referendum sulla “brexit” ha mostrato una nazione profondamente divisa su tanti temi politici. L’elezione di un sindaco musulmano a Londra ha fatto comprendere quanto numerosa e potente sia la comunità islamica che si attesta in tutto il paese intorno al 20 per cento e nella City conta 425 moschee sovraffollate. Ma allo stesso tempo gli attentati di Londra hanno svelato il ribollimento interno alla comunità musulmana che, lungi dall’integrazione, non sopporta il multiculturalismo e la tolleranza. L’ultima triste finestra che si è aperta sul Regno Unito ha riguardato il sequestro e la tortura del piccolo Alfie Evans in un ospedale pubblico. Infatti proprio di questo si è trattato. Un piccolo bambino sottratto ai suoi genitori e ucciso con la sentenza di un tribunale. Lo stato ha deciso che per risparmiare bisognava sottrarre un bambino ammalato alla potestà genitoriale e negarli persino un po’ di aria per respirare o un po’ di acqua per idratarsi. Anche se in tutti questi casi le notizie dall’Inghilterra non sono basate sulle solite “reali” stupidagini, mi è tornato in mente il saggio padre maestro. Il problema è che qualcuno dalle nostre parti ritiene quella stoltezza un modello di “civiltà” e un esempio da seguire.

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Il voto dei cattolici?

Tra le diverse analisi sociopolitiche che hanno tentato di interpretare e commentare il voto del 4 marzo, una mi ha colpito particolarmente. Alcuni analisti hanno evidenziato la scomparsa dalla scena politica italiana, e quindi anche dal dibattito pubblico, dei politici cattolici animati e ispirati da una forte identità religiosa. Non condivido pienamente questo tipo di analisi perché, a mio avviso, nelle ultime elezioni forse è definitivamente tramontata solo l’idea di un partito completamente di ispirazione cristiana. Le cause che hanno determinato tale situazione sono molteplici. La prima di queste è che i partiti che nel passato si dichiaravano cattolici non hanno dato buona testimonianza di onestà e di coerenza con il credo professato. In tal senso non è un male il fatto di non avere un partito che si dichiari cattolico e poi venga coinvolto in scandali di vario genere o che per realpolitik sostenga leggi contrarie ai valori che dovrebbero contraddistiguerlo. La seconda causa risiede nel fatto che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di astenersi totalmente dal fornire indicazioni di voto o, più precisamente, talvolta hanno espressamente detto per chi non votare, ma non hanno fatto altrettanto per indicare ai fedeli chi votare. Giustamente i vertici della Chiesa pensano che non avere un partito di riferimento li renda probabilmente più liberi di parlare e di poter svolgere un’azione di richiamo al bene comune verso tutti gli schieramenti politici. Il problema è che ultimamente la Chiesa italiana sembra aver rinunciato anche al suo ruolo naturale di gruppo di pressione, nonostante abbia dei valori e delle visioni del mondo altamente positivi da affermare, e ha lasciato campo libero ad altri gruppi di pressione, lobby e sodalizi che sono portatori di interessi e visioni del mondo contrarie a quelle cristiane e che spesso sono immorali sul piano economico, antropologico e sociale. In terzo luogo sembra che anche il rapporto tra fede e identità sia diventato liquido come la società e così sempre più spesso la norma che spinge ad agire non è dettata dai valori fondamentali dell’esistenza personale, ma dai sentimenti che ognuno prova in un dato momento. La fede dunque non crea più identità, non aggrega, non costituisce soggetti collettivi, ma rimane un fatto individuale, un fai da te che si accartoccia sempre più nella “spirale del silenzio” nel quale la società liquida l’ha confinata.

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Il calcio torni ad essere un gioco da ragazzi

La mancata qualificazione della Nazionale Italiana di calcio alla fase finale del Mondiale 2018 è stata un vero choc per tutta la nazione. Non solo i tifosi di calcio, ma anche i giornalisti, i politici e gli uomini di cultura si sono interrogati sulle cause di una tale figuraccia internazionale. A molti è sembrato subito evidente che l’eliminazione non è stata solo questione di sfortuna o di una squadra assemblata male e che le cause siano da ricercare nella nostra società più che sul terreno di gioco. Quasi tutte le analisi apparse sui giornali attribuiscono l’eliminazione ad alcuni atteggiamenti diffusi nella nostra società, in particolare: l’incompetenza dei vertici delle federazioni sportive e dei poteri politici che le organizzano; la sostituzione dei valori sportivi con quelli meramente economici; le scuole calcio per ragazzi. Credo che i primi due problemi siano condivisi da una grande fetta di italiani e non abbiano bisogno di commento, anche perché difficilmente il comune cittadino può fare qualcosa per risolverli. Il terzo problema indicato dagli analisti è, invece, molto interessante perché stigmatizza un atteggiamento delle giovani famiglie italiane e dei loro ragazzi. In sostanza molti analisti attribuiscono il brutto gioco espresso dalla Nazionale all’approccio che le nuove generazioni hanno con il calcio. Fino a qualche decennio fa i ragazzi iniziavano a giocare a calcio per strada, nelle ville comunali, negli oratori parrocchiali e per loro il calcio era davvero un gioco. Nella libertà e nella spensieratezza di quelle partitelle fatte con porte improvvisate, palloni di plastica (qualcuno ricorderà il “Super Santos” o il “Tango”) e qualche vetro rotto, i ragazzi esprimevano il loro talento naturale, improvvisavano dribbling, “scartavano” l’avversario, segnavano a pallonetto. Nessun genitore era lì con gli occhi fissi a giudicare i progressi del figlio. Poi, secondo una selezione naturale e con lo stimolo degli stessi compagni qualcuno andava a fare il provino nella squadra del paese e lì il suo talento veniva raffinato e inserito in una dinamica di squadra. Così la tecnica appresa dagli allenatori serviva ad esaltare il talento e non a sostituirlo. Il peso delle aspettative di amici e familiari non era troppo gravoso perché cresceva in modo proporzionale all’eventuale passaggio del ragazzo in squadre e campionati più prestigiosi. Questo era il modo di giocare al calcio che ha prodotto grandi campioni. Oggi, purtroppo, la situazione è molto cambiata. Sin da piccoli i ragazzi vengono iscritti alla scuola calcio, che sembra essere la tomba del talento. Non si gioca più per il puro divertimento, ma perché i genitori hanno pagato una retta mensile. Spesso non viene data al ragazzo la libertà di esprimere il proprio estro perché occorre imparare la tecnica, la posizione, il ruolo nella squadra. Ma la cosa più deleteria è l’aspettativa di genitori che, avendo pagato, vogliono vedere dei risultati concreti e seguono i figli in quasi tutte le partite, arrivando persino a litigare tra di loro se il figlio di uno non passa la palla al figlio dell’altro. In quest’atteggiamento sociale si nasconderebbe, secondo molti analisti, la causa del pessimo spettacolo offerto dalla nostra nazionale di calcio. I giocatori italiani non sarebbero più in grado di esprimere fantasia, estro, spettacolo e questo spiegherebbe anche la necessità di inserire nei nostri campionati numerosi giocatori stranieri provenienti da quei paesi dove il calcio è ancora un gioco “da ragazzi” e non una professione per “pulcini” allevati nelle scuole calcio. Mi sento di dire che forse questa volta gli analisti ci hanno visto giusto.

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Qualcuno ci conosce più di noi stessi

Ogni volta che utilizziamo un dispositivo elettronico connesso a internet probabilmente non ci rendiamo conto della guerra che si svolge al suo interno. Dentro quel minuscolo oggetto due grandi forze si scontrano per la conquista del bene più prezioso che il nostro tempo può offrire: i dati. Infatti, da un lato le grandi multinazionali dell’informatica e dall’altro gli hacker si dimenano per sottrarci fino all’ultima informazione che noi possiamo fornirgli. Tutto per loro è importante, ogni tasto pigiato, ogni movimento dei nostri occhi, ogni cosa acquistata, ogni parola, persino le pause, le virgole, i punti, anche il nostro respiro. Sembra paradossale, ma più alcune cose noi le facciamo abitudinariamente e senza porci troppo caso e più quel dato è importante per loro. Tra i due contendenti c’è una sola differenza: mentre alle multinazionali abbiamo dato noi stessi il permesso di raccogliere tutte le nostre informazioni e di farne ciò che vogliono, ai secondi invece non lo abbiamo dato. Ma qualcuno potrebbe dire: io non ho dato il permesso a nessuno di spiarmi! E invece no! Ognuno di noi nel momento in cui inizia ad usare un dispositivo elettronico non può rifiutarsi di schiacciare quel minuscolo tasto con su scritto: “Accetto” oppure in inglese “I agree”. In quel momento accetta, di fatto, di non essere il proprietario del suo dispositivo, ma solo l’utilizzatore di una macchina che produce dati e informazioni per qualcun altro. Anche se quel dispositivo è stato pagato centinaia di euro, di fatto il compratore non ne diviene veramente proprietario, ma gli viene solo concesso di utilizzarlo al fine di produrre dati utili alle aziende che lo hanno venduto. Gli hacker, invece, tagliano corto, evitano la formalità di farci schiacciare il pulsante del consenso ed accedono alle nostre informazioni. Qualche studioso ha paragonato una tale condizione a quella dei servi della gleba, quando i contadini vivevano su una terra concessa dal signore locale e i lavoratori non erano proprietari nemmeno degli attrezzi per l’agricoltura o per altri mestieri. Oggi la situazione sembra riportarci a qualcosa di simile, a quel vecchio modello feudale perché le multinazionali utilizzano la legge sulla proprietà intellettuale del software per controllare gli oggetti fisici che i consumatori ritengono di possedere. Non si tratta solo delle informazioni, delle fotografie e dei messaggi che ognuno rilascia quando utilizza i social network, ma anche di tutti i dati che forniamo attraverso gli innumerevoli dispositivi collegati a internet. Parliamo di televisori che registrano le conversazioni domestiche, aspirapolveri che mappano la casa, frigoriferi che rilevano i prodotti acquistati, per passare agli acquari, ai sextoy, ai forni, ai gadget per la preghiera o la meditazione. A cosa serve alle aziende una così grande quantità di dati che ci riguardano? Nella migliore delle ipotesi serve a “personalizzare” le offerte commerciali. In altre parole, conoscendo i nostri gusti e le nostre preferenze possono proporci acquisti o percorsi mirati che li rispecchiano. In sostanza sanno tutto di noi e ci forniscono ciò che a noi piace, avvolgendoci con proposte su misura per noi. Il rischio di questo “servizio non richiesto” è quello di ritrovarci ingabbiati nei nostri gusti attuali senza più possibilità di cambiarli. Sofisticati algoritmi confezionano per noi percorsi “obbligati” di scelta in base a ciò che ci piace, senza darci la possibilità di rivederlo criticamente. Fotografano ciò che facciamo, senza darci la possibilità di cancellarlo o di correggerlo. A questo punto si può fare un parallelo con un terzo soggetto interessato a ciò che facciamo rispetto alle multinazionali e agli hacker: Dio. Anche lui ci conosce profondamente, ci scruta di continuo, conosce quando ci alziamo e quando ci sediamo (cf. Sal 138), raccoglie molte informazioni su di noi. Ci sono però sostanziali differenze con gli operatori della tecnologia digitale: Dio raccoglie i nostri dati non per assecondare i nostri gusti, ma per fornirci alternative salutari; Dio non ci indirizza su percorsi di scelta obbligati, ma ci lascia pienamente liberi di scegliere; Dio non ci nega il diritto all’oblio come fa internet, ma è disposto a cancellare tutti gli sbagli del nostro passato.

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Tutto il resto è invisibile agli occhi

Mettendo insieme tutti i pianeti dell’universo, tutte le stelle e tutte le galassie si ottiene circa il 5% della materia esistente nell’universo. Allora il restante 95% di materia dove si trova? È sempre nell’universo, ma è invisibile! Sì, proprio invisibile! Su questo fatto gran parte degli scienziati sono ormai concordi. Nell’universo esiste una grande quantità di materia e di energia che non è visibile all’occhio umano. Non si tratta di non avere gli strumenti adatti, ma del fatto che questa materia è trasparente e non emette radiazioni quindi non può essere rilevata né dai nostri sensi né dagli strumenti tecnici.

Eppure gli scienziati sono certi dell’esistenza di quella che chiamano “materia ed energia oscura” e che si potrebbe anche dire “invisibile”. Come fanno ad esserne così certi? Perché, osservando il movimento delle galassie, hanno notato che tale movimento viene influenzato da qualcosa che dovrebbe essere tra i corpi celesti, ma che nessuno riesce a vedere. Inoltre, lo stesso universo muovendosi ad altissima velocità, contraendosi ed espandendosi, non riuscirebbe a rimanere compatto se, oltre alla forza di gravità, non ci fosse una specie di colla invisibile che lo tenga unito.

Ovviamente la nostra non è una rivista scientifica, quindi da questa premessa proviamo a trarre alcune considerazioni di carattere religioso.

Se anche gli scienziati ammettono che l’uomo può vedere soltanto il 5% di ciò che esiste nell’universo e che di tutto il resto si può intuire l’esistenza solo guardando gli effetti che vengono prodotti, come mai molti storcono il naso quando si parla della dimensione spirituale? Quella famosissima frase di san Tommaso “se non vedo non credo” oggi persino agli scienziati non si addice più perché, ogni giorno di più, essi intuiscono l’esistenza di dimensioni invisibili della realtà. Infatti, l’esperienza della materia oscura non è l’unica del genere, basti pensare al Bosone di Higgs, quella particella invisibile che dovrebbe permettere all’energia di trasformarsi in materia. Quindi, finalmente i credenti non devono più sentirsi in imbarazzo quando affermano l’esistenza di una realtà spirituale oppure che questa energia divina possa trasformarsi in materia organica come il logos che diventa carne o la carne che diventa spirito.

Paradossalmente, oggi la scienza intuisce ciò che la fede ha sempre affermato. La vicenda della materia invisibile, della quale si vedono gli effetti ma non la sua consistenza, sembra far riecheggiare le parole di Gesù: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). Allo stesso modo l’esperienza di Gesù risorto che sta con i suoi discepoli e cammina con loro, ma i loro occhi non erano in grado di riconoscerlo, non è in contrasto con le più moderne affermazioni della scienza.

In ultima analisi, noi sappiamo che tutta l’esperienza spirituale si basa sul riconoscimento degli effetti prodotti dall’azione dello spirito: la conversione, l’amore fraterno, il perdono delle offese, il dono della vita. Ebbene, l’uomo spirituale intuisce la presenza della sostanza invisibile così come lo scienziato oggi intuisce la presenza della materia invisibile. Chi può dire: la mia percezione è vera mentre la tua è falsa?

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